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AMY - THE GIRL BEHIND THE NAME Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 28 settembre 2015
 
di Asif Kapadia, con Amy Winehouse, Mitch Winehouse, Mark Ronson, Russell Brand (Gran Bretagna, 2015)
 
La prima emozione provocata da AMY (il successo più plebiscitato fra le pellicole fuori competizione a Cannes 2015) sta nel rendersi subito conto di come sia la stessa Amy Winehouse - l'immensa cantante di pop-jazz, compositrice, autrice di testi, scomparsa a 27 anni nel 2011 - a raccontarci la propria vita. E' il risultato di una scelta, originale oltre che utilmente destabilizzante per lo spettatore, già utilizzata dal regista inglese Asif Kapadia nell'ottimo SENNA (2010) sul pilota di formula 1. Quella di ricorrere esclusivamente ad immagini d'archivio, in gran parte inedite e private, oltre a spezzoni di concerti, interviste: facendole commentare dai protagonisti, ma fuori campo, senza mai filmarli in sincrono. Un procedimento che permette di mostrarci Amy ancora adolescente, prima delle drammatiche vicende che sappiamo, i foruncoli sul viso, e una voglia di vivere intatta. Un'operazione condotta con la collaborazione dei famigliari, dopo la scomparsa dell'artista; e per poco tempo. Cosa che non sorprende, visto il ritratto che ne nasce dal film: una figlia in mancanza d'affetto, un divorzio traumatizzante, un padre preoccupato di sfruttare un talento destinato a guadagnarsi milioni, oltre ai 5 Grammys. Un genitore che dissuade la figlia dall'intraprendere una cura di disintossicazione, quando ancora si poteva fare qualcosa per lei.

Rinunciando a un intervento da parte del regista con immagini e commenti propri, limitandosi all'uso di immagini vere in quanto d'archivio, conferendo l'impressione commovente di una confessione che ci giunge direttamente da una protagonista che sappiamo drammaticamente scomparsa, il film raggiunge istanti di verità che vanno oltre il documento. Oggetto di un'attenzione mediatica allucinante, di Amy Winehouse sappiamo infatti già tutto: delle sue ferite amorose seguite da bulimie e depressioni, di droga e alcolismo vanamente contrastati dalle disintossicazioni (anche per la presenza di un compagno più renitente di lei, però sopravvissuto), delle disastrate esibizioni in pubblico, di una morte annunciata.

Al contrario, il film sgorga dalla fragilità dell'intimo: da una prima parte dominata dalla voce e dalle melodie indimenticabili, al buco nero che si para progressivamente innanzi. "Faccio del bene con il male": la libertà straordinaria di una voce, l'abbandono totale alla consolazione artistica che rimanda a quelle epocali di Billie Holiday o di Janis Joplin, scivola negli sguardi persi nel vuoto, nelle immagini terribili che progressivamente si sovrappongono. Lo sciacallaggio ipocrita dei presunti mezzi d'informazione, la rincorsa all'odore del sangue, l'interminabile diluvio accecante dei flash crepitanti colpiscono allora lo spettatore che assiste allo scempio esistenziale altrettanto di chi lo ha subito. Come lo sciogliersi di un ghiacciaio abbagliante è tutta quella libertà a svanire, e con quello lo specchio ormai in frantumi della nostra epoca.


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